La Chiesa, i cattolici, il mondo e il no al mito del Concilio
(di P. Serafino Lanzetta) Un altro contributo sul Vaticano II, non tanto elogiativo del mito trionfalistico che ha accompagnato questi cinquant’anni di ricezione conciliare, piuttosto di critica intelligente documentata e divulgativa, è venuto da poco alla luce: ha un titolo stimolante, La Bella Addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, frutto di un lavoro esimio di due firme del cattolicesimo battagliero e non allineato a quegli stereotipi “da sacrestia”, A. Gnocchi e M. Palmaro. La Chiesa di quei “formidabili anni” è descritta come la Bella, perché sempre l’Immacolata Sposa di Cristo, ma addormentata, proprio come la fiaba. Qui il sonno è metafora di una crisi molto profonda, di cui parlava di recente e nuovamente il S. Padre in Germania, una crisi di fede, una crisi dell’identità cattolica. Cosa è successo nella Chiesa cattolica? Da dove ha preso corpo quell’ondata limacciosa di ottimistica quanto presuntuosa baldanza della novità, un modo sciocco eppure riaffermato di credersi nuovi e sempre al passo con i tempi, perché finalmente emancipati da un prima ecclesiale ed ecclesiastico insopportabile: una Chiesa, una liturgia, un predicazione non più tollerabili
Bisognava essere moderni. Purtroppo quei tempi moderni si rivelarono presto già superati dopo qualche anno, mentre alcuni tenacemente si affaticavano a rincorrerli. Il tutto come in grande sonno. O forse il sogno di vedere all’orizzonte la realizzazione di una Chiesa che non c’era, né poteva esserci. Si intrufolarono in questa compagine dell’ottimismo tante ideologie: una Chiesa dei poveri, una teologia della politica, una teologia della liberazione. Tanti cristiani, tanti uomini erano privati della libertà sotto l’egida disumana del comunismo, mentre uomini di Chiesa si intrattenevano sul come raggirare gli ostacoli per ammettere gli osservatori ortodossi al Concilio. Non si parlò punto del comunismo. Ecco come si fece. Eppure il Concilio si era prefisso di essere pastorale. Si gridava invece al cambiamento. A differenza del ribaltamento culturale ideologico, quello ecclesiastico aveva un “marchio”, d’autore: il Concilio Vaticano II. In nome di esso, abusandone, si volle re-iniziare ad esser cattolici.
Una cosa però sorprese gli uditori attenti: nel discorso inaugurale del B. Giovanni XXIII, Gaudet mater ecclesia, si intravedeva un nemico, che non era fuori, era in casa: i “profeti di sventura”, ovvero non il neo-modernismo, il materialismo scientifico, l’ateismo, i nuovi errori teologici, ma quelli che si industriavano a mettere il bastone tra le ruote al carro della felicità, che doveva partire speditamente. Purtroppo la sventura c’è stata, ma si è originata ahimè non dentro ma fuori, ed è penetrata come fumo all’interno: il mondo, dirà pentito J. Maritain, era entrato nella Chiesa, quel mondo che la Chiesa voleva incontrare ad ogni costo.
Non si tratta, comunque, di fare un’inquisizione al Vaticano II, che resta un concilio ecumenico della Chiesa cattolica, ma di collocarlo al suo giusto posto. Quel posto che il Concilio scelse: un ambito pastorale e non dogmatico-definitorio; un Concilio che non riassume l’intera Tradizione della Chiesa; un Concilio che non è la Chiesa, né è al di sopra di essa; un Concilio che resta tale e non può trasformarsi in un discrimine per appurare il grado di fede cattolica di un credente. Non era mai successo nella storia della Chiesa che un concilio determinasse l’essere cattolici. Era piuttosto l’inverso. Un cattolico non può non essere fedele e ossequioso al Vaticano II, ma non può neppure “credere” nel Vaticano II, come si trattasse di un dogma. Il Vaticano II non fu un “evento epocale”, che cambiò le sorti della Chiesa. O meglio, a guardare questi anni, sembra che lo fu, ma Gnocchi e Palmaro vogliono invece dire che il Vaticano II, come ogni altro concilio, non poteva esserlo, né deve esserlo. Essere cattolici implica la totalità della fede, così come ricevuta.
Una peculiarità di questo libro, appassionante anche per quel bell’italiano che fa scorrere le pagine, è l’analisi interessante della genesi del mito “Vaticano II”. La Chiesa pensò di affidare il suo Concilio ai mezzi di comunicazione. Tutto (o quasi) quello che si diceva in aula il giorno dopo lo si leggeva sui giornali, i quali anticipavano ai lettori i temi e gli orientamenti dei Padri nelle Assemblee generali, condizionando così l’andamento dei lavori. Non si tenne conto che «il mezzo è il messaggio», (M. McLuhan) e che, come dicono gli autori, «nell’universo mediatico, lo scopo del messaggio non è la trasmissione del vero, ma la propria diffusione» (p. 78). Si finì col sovrapporre al «trascendentale ideologico» della modernità quello tecnico della stampa e della TV, sì da produrre «‘il trascendentale ecclesiologico’ che da subito si impose come premessa per ‘fare’ e poi ‘comprendere il Concilio» (p. 82). Dopo cinquant’anni siamo ancora alle prese con la giusta ermeneutica del Vaticano II.
(p. Serafino M. Lanzetta )
http://www.conciliovaticanosecondo.it/2012/10/04/la-chiesa-i-cattolici-il-mondo-e-il-no-al-mito-del-concilio/
Bisognava essere moderni. Purtroppo quei tempi moderni si rivelarono presto già superati dopo qualche anno, mentre alcuni tenacemente si affaticavano a rincorrerli. Il tutto come in grande sonno. O forse il sogno di vedere all’orizzonte la realizzazione di una Chiesa che non c’era, né poteva esserci. Si intrufolarono in questa compagine dell’ottimismo tante ideologie: una Chiesa dei poveri, una teologia della politica, una teologia della liberazione. Tanti cristiani, tanti uomini erano privati della libertà sotto l’egida disumana del comunismo, mentre uomini di Chiesa si intrattenevano sul come raggirare gli ostacoli per ammettere gli osservatori ortodossi al Concilio. Non si parlò punto del comunismo. Ecco come si fece. Eppure il Concilio si era prefisso di essere pastorale. Si gridava invece al cambiamento. A differenza del ribaltamento culturale ideologico, quello ecclesiastico aveva un “marchio”, d’autore: il Concilio Vaticano II. In nome di esso, abusandone, si volle re-iniziare ad esser cattolici.
Una cosa però sorprese gli uditori attenti: nel discorso inaugurale del B. Giovanni XXIII, Gaudet mater ecclesia, si intravedeva un nemico, che non era fuori, era in casa: i “profeti di sventura”, ovvero non il neo-modernismo, il materialismo scientifico, l’ateismo, i nuovi errori teologici, ma quelli che si industriavano a mettere il bastone tra le ruote al carro della felicità, che doveva partire speditamente. Purtroppo la sventura c’è stata, ma si è originata ahimè non dentro ma fuori, ed è penetrata come fumo all’interno: il mondo, dirà pentito J. Maritain, era entrato nella Chiesa, quel mondo che la Chiesa voleva incontrare ad ogni costo.
Non si tratta, comunque, di fare un’inquisizione al Vaticano II, che resta un concilio ecumenico della Chiesa cattolica, ma di collocarlo al suo giusto posto. Quel posto che il Concilio scelse: un ambito pastorale e non dogmatico-definitorio; un Concilio che non riassume l’intera Tradizione della Chiesa; un Concilio che non è la Chiesa, né è al di sopra di essa; un Concilio che resta tale e non può trasformarsi in un discrimine per appurare il grado di fede cattolica di un credente. Non era mai successo nella storia della Chiesa che un concilio determinasse l’essere cattolici. Era piuttosto l’inverso. Un cattolico non può non essere fedele e ossequioso al Vaticano II, ma non può neppure “credere” nel Vaticano II, come si trattasse di un dogma. Il Vaticano II non fu un “evento epocale”, che cambiò le sorti della Chiesa. O meglio, a guardare questi anni, sembra che lo fu, ma Gnocchi e Palmaro vogliono invece dire che il Vaticano II, come ogni altro concilio, non poteva esserlo, né deve esserlo. Essere cattolici implica la totalità della fede, così come ricevuta.
Una peculiarità di questo libro, appassionante anche per quel bell’italiano che fa scorrere le pagine, è l’analisi interessante della genesi del mito “Vaticano II”. La Chiesa pensò di affidare il suo Concilio ai mezzi di comunicazione. Tutto (o quasi) quello che si diceva in aula il giorno dopo lo si leggeva sui giornali, i quali anticipavano ai lettori i temi e gli orientamenti dei Padri nelle Assemblee generali, condizionando così l’andamento dei lavori. Non si tenne conto che «il mezzo è il messaggio», (M. McLuhan) e che, come dicono gli autori, «nell’universo mediatico, lo scopo del messaggio non è la trasmissione del vero, ma la propria diffusione» (p. 78). Si finì col sovrapporre al «trascendentale ideologico» della modernità quello tecnico della stampa e della TV, sì da produrre «‘il trascendentale ecclesiologico’ che da subito si impose come premessa per ‘fare’ e poi ‘comprendere il Concilio» (p. 82). Dopo cinquant’anni siamo ancora alle prese con la giusta ermeneutica del Vaticano II.
(p. Serafino M. Lanzetta )
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