Convegno di Roma sul Vaticano II, 16 dicembre. Testo integrale della Relazione del Prof. De Mattei
Sono in grado di pubblicare, per gentile  concessione del Prof. de Mattei, il testo integrale del suo intervento al  Convegno sul Concilio Vaticano II, organizzato dai Francescani dell'Immacolata,  un evento che fornisce materiale e spunti rilevanti per le nostre riflessioni e  approfondimenti e sarà fondante per l'evoluzione ulteriore di un discorso serio,  ormai ineludibile per il futuro della nostra Chiesa. (il testo che sarà  pubblicato tra gli Atti del Convegno sarà arricchito anche delle note)
L'intervento di De Mattei, ricco del pathos  dato dal coinvoglimento spirituale dell'autore ma anche del rigore e  dell'appassionata ricerca dello storico, delinea il filo conduttore attraverso  il quale acquistano collocazione e senso documenti ed immagini di un repentino  cambiamento: fatti, concatenamenti, causalità, con un metodo e dei criteri che  per la prima volta, dopo anni di egemonia incontrastata, ci consentono di  misurarci ad un livello serio e autorevole con la poderosa opera storiografica  che, iniziata da Giuseppe Alberigo e poi da Alberto Melloni (la nota "Scuola di  Bologna"), aveva prodotto fino a oggi l'unica organica ricostruzione del  fenomeno conciliare, che Gnocchi e Palmaro definiscono efficacemente:  "Ricostruzione tendenziosa, ideologica e persino eversiva, certo, ma fatta da  gente che il mestiere di storico, innegabilmente, lo conosce bene." 
E così abbiamo il controcanto di tutto rispetto  offerto dal prof. de Mattei, preceduto dalla sua opera storica: Il  Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010, che  possiamo considerare una delle strutture portanti - insieme all'opera filosofica  di Romano Amerio, a quella teologica di Brunero Gherardini ed agli altri  autorevoli e magistrali interventi dei quali proseguiremo l'esame - della  ricostruzione sulle macerie della cosidetta "nuova Pentecoste" conciliare. 
Esso fornisce a studiosi e fedeli la visione  cattolica non 'spuria' né ammaliata dai canti delle sirene delle avventurose  arbitrarie innovazioni, foriere per molti di "magnifiche sorti e progressive".  Esse stanno aprendo orizzonti nuovi e sconosciuti, avulsi dalla linfa vitale  delle Radici della Tradizione perenne, che può essere oggetto di "trasformazione  evolutiva", ma nella 'continuità' e non nella 'rottura', come ricordato da  Benedetto XVI nel discorso alla curia del 2005. E' questo lo spartiacque che,  evidenziando la contrapposizione tra due ermeneutiche del concilio, lungi  dall'aver chiuso il discorso, ha di fatto aperto il confronto tra due visioni  inconciliabili della chiesa. 
Se nel convegno si è evidenziato come la  lettura progressista enfatizzi il concilio come "evento" fondante della "nuova  Pentecoste" e, dando priorità all'evento-impulso di novità che si voleva  imprimere, ha fatto e fa sì che l'evento assorba il testo e lo sposti nella sua  ricezione, si è tuttavia constatato proprio con De Mattei come le pericolose  spinte eversive, dentro e fuori l'aula conciliare, non abbiano dato vita ad un  soggetto in qualche modo nuovo; il che ha espulso dall'orizzonte storiografico  il concetto mitico di "evento conciliare", eliminando automaticamente con esso  quello di "nuova chiesa".
Inserisco quindi il testo della relazione.  Offrirò in apertura della discussione alcune chiavi di lettura, tra le più  significative.
Istituto Maria Santissima Bambina
Roma, 16 dicembre 2010
Concilio Vaticano II
1. L’immagine  della Chiesa nel 1962
Eccellenze reverendissime, Monsignori,  Reverendi Padri, Signore e Signori,
chi vi parla è uno storico ed è dalla storia  che vorrei partire, tornando assieme a voi a quel giorno dell’11 ottobre 1962,  in cui si aprì a Roma il Concilio Vaticano II, ventunesimo Concilio ecumenico  della storia della Chiesa.
Il lungo corteo dei Padri conciliari, che  quella mattina uscì dalla Porta di Bronzo e avanzò lentamente all’interno della  Basilica di San Pietro stracolma, offriva una straordinaria immagine della  Chiesa militante sulla terra. 
In testa i superiori di ordini religiosi, gli  abati generali e i prelati nullius; quindi i vescovi, gli arcivescovi, i  patriarchi, i cardinali, e per ultimo, in sedia gestatoria, scortato dalla  Guardia nobile, tra gli applausi della folla, il Papa Giovanni XXIII. Mentre il  corteo dei padri incedeva con solennità, i cantori intonarono il Credo e  poi il Magnificat. Il corteo era lungo complessivamente circa 4  chilometri; vi partecipavano quasi tremila dignitari della Chiesa. Di essi 2.381  vescovi, direttamente collegati mediante la successione apostolica ai primi  Apostoli. Essi erano riuniti attorno al sovrano supremo, il Papa, Vicario di  Cristo, con giurisdizione piena e diretta su tutti i vescovi e su tutti i fedeli  del mondo.
La  presenza del Vicario di Cristo e dei successori degli Apostoli, nel quadro  incomparabile della Basilica di San Pietro, fecero di quella cerimonia uno  spettacolo unico al mondo. Mai come in questo momento la Chiesa cattolica  manifestò il suo carattere, gerarchico e visibile: visibile perché la Chiesa  militante, in quanto fondata sull’Incarnazione del Verbo, deve rendere manifesto  nella sua struttura il suo aspetto invisibile, come l’organismo umano rende  tutto l’uomo visibile, benché la sua anima in sé resti invisibile. Per amare  questa gerarchia era, ed è, necessaria una profonda umiltà. Bisogna ammettere  che non esiste uguaglianza nel mondo creato, che tutto dipende da Dio, che  partecipa l’essere a ogni creatura in maniera diversa: e con l’essere ogni  creatura riceve qualità, doni, grazie in base alle quali occupa nella società  terrena e in quella soprannaturale un posto diverso. Il primo peccato, quello  degli angeli ribelli, fu il rifiuto di riconoscere la sapienza di Dio, nel  calare la propria divinità nel seno di un'umile creatura, come avvenne per il  Verbo Incarnato, e per elevare questa creatura, Maria, al vertice dell’universo  creato. I cori degli Angeli Fedeli esprimono nel cielo questa sublime dipendenza  gerarchica e la Chiesa e la società cristiana sono chiamate a riflettere sulla  terra la gerarchia dei cori celesti.
Universalità, sacralità, gerarchia: questa era  l’immagine che l’11 ottobre del 1962 di sé dava al mondo la Chiesa militante  sulla terra, soprannaturalmente unita alla Chiesa sofferente e alla Chiesa  trionfante nell’unica Comunione dei Santi. La Chiesa appariva davvero la città  posta sul monte di cui parla il Vangelo (Mt, 5,14).
2. Il rapporto tra la Chiesa e il  mondo
Ma qual era l’immagine che di sé offriva il  mondo all’inizio degli anni Sessanta? 
Il mondo di quegli anni era immerso in un clima  psicologico di ottimismo, se non di euforia. Tre icone brillavano nel firmamento  internazionale, incarnando questo clima di ottimismo: Nikita Sergeevic Krusciov,  dal 27 marzo 1958 premier dell’Unione Sovietica; Angelo Giuseppe Roncalli,  asceso al soglio pontificio il 28 ottobre di quello stesso 1958 con il nome di  Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, che il 21 gennaio 1961 aveva assunto  la carica di Presidente degli Stati Uniti. 
Il 12 aprile 1961 il maggiore sovietico Yuri  Gagarin aveva compiuto il primo volo di un uomo nello spazio. La sua impresa  sembrava suggellare un’epoca di trionfo della scienza, campo in cui l’Unione  Sovietica contendeva agli Stati Uniti il primato nel mondo. Ma il 13 agosto di  quello stesso 1961 era iniziata la costruzione del Muro di Berlino e  l’imperialismo sovietico estendeva la sua ombra minacciosa su larga parte del  mondo. 
L’influenza che il comunismo esercitava sul  mondo, più che politica e militare, era culturale e psicologica. La filosofia  marx-hegeliana dominava negli ambienti accademici e mediatici e anche nel  linguaggio comune correvano termini mutuati da quella filosofia immanentista,  come “senso della storia”, “corso dei tempi”, “apertura e chiusura”, “liberazione e repressione”. Si trattava di una visione dialettica che si  esprimeva nelle nuove parole d’ordine lanciata dalla propaganda comunista: il “dialogo”, inteso come dissolvimento di ogni certezza e verità; la “coesistenza  pacifica”, intesa come processo per disarmare psicologicamente l’avversario; lo “sviluppo” e l’“emancipazione” dei popoli, intesi come rifiuto di ogni autorità  e tradizione del passato. L’ideologia soggiacente era quello del progresso  inteso come marcia irreversibile e ascensionale dell’umanità per raggiungere una “felicità” sociale presentata come la trasposizione sulla terra del Paradiso  celeste. 
Nel corso della sua storia, la Chiesa aveva  parlato al mondo con il linguaggio dei confessori senza macchia e senza paura,  dei dottori inflessibili nelle loro controversie, dei martiri intransigenti  nella testimonianza della verità, delle vergini immacolate nella loro fedeltà  sponsale. Questi uomini e queste donne avevano preferito essere esclusi,  disprezzati, perseguitati, messi a morte dal mondo piuttosto che rinunciare a  proclamare la verità e a lottare contro gli errori e le false dottrine. Era  questa la strada indicata da confessori della fede come il cardinale Aloisio  Stepinac, morto alla vigilia del Concilio, e il cardinale Josef Mindszenty,  recluso dal 1956 nell’ambasciata americana a Budapest.
La cultura progressista degli anni Sessanta  esercitava il suo fascino anche su alcuni uomini di Chiesa, convinti che fosse  necessario mutare l’atteggiamento nei confronti del mondo: rinunciare agli  anatemi e alle condanne degli errori per scorgere ciò che di positivo il mondo  presentava. Era questa la tesi espressa dal padre domenicano Yves Congar, a cui  si deve una delle prime enunciazioni della distinzione tra i dogmi e la loro  formulazione. In un’opera di successo, Vera e falsa riforma della Chiesa,  Congar affermava che non esistono “germi attivi nei quali non siano pure  presenti dei microbi”: ossia errori, in cui non esistono verità. Poiché  uccidere i microbi significherebbe uccidere anche i germi vivi, occorreva, a suo  avviso, lasciare prosperare gli uni e gli altri. La condanna degli errori da  parte della Chiesa, dalle eresie medievali fino al modernismo, aveva spento  secondo lui le istanze positive in essi presenti, qualcuno le chiama oggi le  istanze “esigenziali”: meglio avrebbe fatto la Chiesa a lasciar vivere e  diffondere questi errori. Con questo atteggiamento Congar proponeva di cambiare  la Chiesa dall’interno, attraverso “una riforma senza scisma”. “Non bisogna  fare un’altra Chiesa – spiegava – bisogna fare una Chiesa diversa”. Quello di modificare la Chiesa dall’interno era l’antico sogno, irrealizzato,  dei modernisti. “Fino ad oggi – aveva spiegato il sacerdote apostata  Ernesto Buonaiuti – si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro  Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le  mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e difficile metodo;  ma è difficile. Hic opus, hic labor”. 
Tra coloro che accoglievano le tesi di Congar  era un gruppo di Padri conciliari del Centro-Europa, tra cui spiccava il  neo-eletto primate del Belgio, il cardinale Léo-Joseph Suenens. Suenens non  aveva ancora 60 anni. Dopo essere stato consacrato arcivescovo di  Malines-Bruxelles nel marzo 1962, aveva incontrato a Roma Giovanni XXIII che fu  affascinato dalla sua figura e gli chiese di preparargli una nota per il  Concilio. Nel mese di giugno 1962 Suenens riunì un gruppo di cardinali al  Collegio belga di Roma, tra i quali gli arcivescovi di Monaco Döpfner, di Lille  Liénart, di Milano Montini, per discutere un “piano” e una strategia per il  prossimo Concilio. 
Nel documento che fu redatto, il cardinale  Primate del Belgio lanciava la parola d’ordine del “Concilio pastorale”, definendo ciò “un beneficio immenso”, una “grazia di Pentecoste per la  Chiesa”. Giovanni XXIII avrebbe seguito questa linea strategica.
3. Giovanni  XXIII apre il Concilio
L’allocuzione inaugurale del Papa, Gaudet  mater ecclesia dell’11 ottobre fu – come osserva il padre Wenger – la chiave  per comprendere il Concilio. “Più che un ordine del giorno, esso definiva uno  spirito; più che un programma, dava un orientamento”. La novità non era  nella dottrina, ma nella nuova disposizione psicologica ottimistica con cui si  impostavano i rapporti tra la Chiesa e il mondo: un rapporto dialogico di  simpatia e “apertura”. Coloro che mettevano in dubbio questo spirito irenico e  ottimistico venivano definiti dal Papa “profeti di sventura”.
Per Giovanni XXIII, compito principale del  Concilio era quello di custodire il Magistero della Chiesa e insegnarlo “in  forma più efficace”. Nel suo discorso di apertura egli affermava: “Altro  è il deposito o le verità della fede, altro è il modo in cui vengono enunziate,  rimanendo pur sempre lo stesso significato e il senso profondo”. “Altra è  la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione  del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto”.
Il Concilio era stato indetto, non per  condannare errori o formulare nuovi dogmi, ma per proporre, con linguaggio  adatto ai tempi nuovi, il perenne insegnamento della Chiesa. La forma pastorale,  cioè il rinnovamento del linguaggio dei metodi di azioni e di apostolato, con  Giovanni XXIII, diventava la forma del Magistero per eccellenza. Si tratta di un  punto centrale. Giovanni XXIII non intendeva avviare una Rivoluzione all’interno  della Chiesa. Il suo temperamento era inclinato a un ottimismo che aveva come  conseguenza psicologica, più che ideologica, l’idea di “adattamento” o, come poi  si dirà, di “aggiornamento”. Egli pensava che il Concilio potesse tenersi in  tempi brevi, giungendo ad approvare pochi documenti, magari per acclamazione.  Nel luglio del 1962, ricevette in udienza mons. Pericle Felici, che gli presentò  gli schemi conciliari rivisti e approvati. “Il Concilio è fatto – esclamò  con entusiasmo Papa Roncalli – a Natale possiamo concludere”.
4. Le  due minoranze
Il Concilio non durò tre mesi, come aveva  immaginato Giovanni XXIII. E Papa Roncalli, che morì il 3 giugno 1963, poté  seguirne solo la prima sessione. Paolo VI, eletto il 21 giugno guidò le  successive tre sessioni e ne fu il protagonista. Il Concilio non si svolse  neppure nell’atmosfera di gioioso consenso immaginata da Giovanni XXIII, ma fu  il luogo di drammatici contrasti. 
Se ci si limitasse a una storia “ufficiale”, basata sui risultati dalle votazioni, si dovrebbe negare l’esistenza di una  lotta interna al Concilio tra opposti schieramenti, visto che i documenti  conciliari furono tutti approvati da una schiacciante maggioranza. In realtà,  nessun Concilio conobbe, più del Vaticano II, tensioni e conflitti tra gruppi  contrapposti. 
Gli storici pur non negando quest’evidenza, la  riconducono al contrasto tra una “maggioranza” progressista e una “minoranza” conservatrice, destinata ad essere sconfitta. In realtà lo scontro avvenne tra  due minoranze che, nel 1963, il teologo di Lovanio Gerard Philips descriveva  come due “tendenze” contrapposte della filosofia e della teologia del ventesimo  secolo: l’una nelle parole di Philips più preoccupata di essere fedele agli  enunciati tradizionali, l’altra più attenta alla diffusione del messaggio presso  l’uomo contemporaneo. Nell’articolo del teologo belga le due posizioni venivano  poste sullo stesso piano con una netta preferenza dell’autore verso la seconda.  La prima “tendenza” era però la posizione ufficiale del Magistero della Chiesa,  sempre ribadita fino al pontificato di Pio XII; la seconda “tendenza” era quella  eterodossa, ripetutamente censurata e condannata dallo stesso Magistero  ecclesiastico. 
Per questa seconda tendenza il Concilio  rappresentava una straordinaria opportunità. La natura dell’evento avrebbe  permesso alle diverse posizioni, la conservatrice e la progressista, di  confrontarsi su di un piano di parità ideologica e di affidare alle regole del  gioco parlamentare la prevalenza nei dibattiti. Nel Concilio si crearono gruppi  e correnti definiti dai mass media come una destra, una sinistra, un centro.  L’uso di questi termini, per quanto improprio, non deve sorprendere e può  essere, per comodità, accettato. Lo storico dei Concili Hefele scrive che, nel  325, a Nicea, i vescovi ortodossi formavano con sant’Atanasio e i suoi seguaci  la destra, Ario e i suoi partigiani rappresentavano la sinistra, mentre il  centro-sinistra era occupato da Eusebio di Nicomedia e il centro-destra da  Eusebio di Cesarea. La posizione giusta, quella autenticamente cattolica, non  era quella del centro dei due Eusebi, che formava un “terzo partito” tra  l’ortodossia e l’eresia, ma era quella incarnata dalla destra di sant’Atanasio,  accusato dai suoi avversari di estremismo e di fanatismo. Fu sant’Atanasio però,  autore del Simbolo della fede che ancora oggi professiamo, a tracciare la storia  della Chiesa nei secoli futuri. 
All’interno delle aule conciliari, tra le due  minoranze conservatrici e progressiste ondeggiava, come sempre, la massa di  coloro che esitavano a schierarsi. 
Qual era il pensiero e la posizione di questo  centro maggioritario? Abbiamo uno strumento per conoscerne i pensieri. In aula e  nelle commissioni solo una minoranza dei Padri conciliari prese la parola, ma  pressoché tutti risposero alla richiesta che nel 1959 venne fatta loro dal  cardinale Segretario di Stato Domenico Tardini di proporre temi e suggerimenti  per l’imminente Concilio. 
Le risposte dei vescovi, dei superiori degli  ordini religiosi e delle università cattoliche alla richiesta di pareri del  card. Tardini giunsero, in forma di “vota” nell’estate del 1959. Lo  spoglio dell’enorme materiale, iniziò nel mese di settembre e si concluse alla  fine del gennaio 1960. Un attento esame dei vota permette oggi allo  storico, come permetteva allora al Papa, alla Curia e alla Commissione  preparatoria, di avere un quadro dei “desiderata” dell’episcopato mondiale alla  vigilia del Concilio. 
Le richieste dei futuri Padri conciliari,  considerate nel loro insieme, non esprimevano il desiderio di una svolta  radicale, e tantomeno di una “Rivoluzione” all’interno della Chiesa. Se le  tendenze antiromane di alcuni episcopati affioravano nettamente in alcune  risposte come quelle del card. Alfrink, arcivescovo di Utrecht, in generale gli  auspici dei padri erano quelli di una moderata “riforma” sulla linea della  tradizione. La maggioranza dei vota chiedeva una condanna dei mali  moderni, interni ed esterni alla Chiesa, soprattutto del comunismo, e nuove  definizioni dottrinarie, in particolare riguardanti la Beata Vergine Maria. Tra  gli stessi vescovi francesi, considerati tra i più progressisti, molti  domandavano la condanna del marxismo e del comunismo e una consistente minoranza  chiedeva la definizione del dogma della mediazione di Maria. 
I vescovi italiani, i più numerosi, avrebbero  voluto che il Concilio proclamasse il dogma della “mediazione universale  della Beata Vergine Maria”. Il secondo dogma di cui essi richiedevano la  definizione era quello della Regalità di Cristo, da opporre al laicismo  imperante. Molti inoltre chiedevano al Concilio la condanna degli errori  dottrinali: il comunismo, l’esistenzialismo ateo, il relativismo morale, il  materialismo, il modernismo. 
È interessante l’analogia tra i “vota” dei Padri conciliari e i Cahiers de doléance redatti in Francia, in vista  degli Stati Generali del 1789. Prima della Rivoluzione francese, nessun “cahier de doléance” si proponeva di sovvertire le basi dell’Ancien  Régime, e in particolare la Monarchia e la Chiesa. Ciò che veniva richiesta  era una moderata riforma delle istituzioni, non il loro sovvertimento, come  accadde inaspettatamente, quando si riunirono gli Stati generali. 
Qualcosa di simile alla Rivoluzione francese  accadde tra il 1962 e il 1965. Il Concilio non esaudì le richieste che  emergevano dai “vota” dei Padri conciliari, ma assecondò le  rivendicazioni della minoranza progressista che, fin dall’inizio, riuscì a porsi  alla testa dell’assemblea e ad orientarne le decisioni. È quanto emerge  inconfutabilmente dai dati storici. E come accadde nella Rivoluzione francese, i  giorni decisivi furono i primi, quelli in cui avvenne la rottura della legalità.  A Versailles successe il 17 giugno 1789, quando gli Stati Generali si  trasformarono in assemblea costituente; a Roma il 13 ottobre 1962, quando, su  richiesta del card. Liénart, ma la mossa era stata accuratamente preparata, le  Conferenze episcopali entrarono come gruppi organizzati nella dinamica  conciliare. 
Dietro questi gruppi organizzati si muovevano  altri gruppi organizzati, di vescovi e di teologi, che formarono un partito  apertamente antiromano, perché vedeva nella Curia di Roma il nemico da battere.  La rete di relazioni, che preesisteva al Concilio, era forte e ramificata e  comprendeva oltre alle conferenze nazionali, famiglie religiose, gruppi  linguistici, ma soprattutto laboratori ideologici, come quello di Cuernavaca in  Messico, di Bologna in Italia, di Lovanio in Belgio. Il padre Congar, il  propugnatore della vera Riforma della Chiesa, nel suo Diario del  Concilio ha chiarito come il nemico da abbattere fosse la teologia romana,  soprattutto nella forma in cui era allora insegnata alla Lateranense.
Di fronte a questa minoranza organizzata, i  vescovi e teologi fedeli a Roma reagirono solo tardivamente e senza  l’intelligenza strategica dei loro avversari. Secondo una studiosa, Melissa  Wilde, il successo dei progressisti può essere spiegato la minoranza  progressista prevalse anche grazie alla migliore strategia e organizzazione,  occorre dire che la storia è sempre fatta da minoranze e ciò che prevale, nello  scontro, non è il numero e neanche l’organizzazione, ma la determinazione e  l’intensità con cui queste minoranze combattono le loro battaglie. Fu questa una  delle cause del successo dell’ala progressista. Successo o sconfitta? Le  rivendicazioni dell’ala giacobina furono certo respinte. I documenti non  corrisposero alle attese dei progressisti più audaci ed è grazie ai compromessi  raggiunti in extremis che oggi quei documenti possono essere letti anche  alla luce della Tradizione. Ma l’immagine che il mondo aveva della Chiesa  cambiò. Quando il 12 ottobre 1963 mons. Franić, vescovo di Spalato, propose che  nello schema De Ecclesia al nuovo titolo di Chiesa “pellegrinante” fosse  aggiunto quello, tradizionale, di “militante”, la sua proposta fu respinta.  L’immagine che la Chiesa doveva offrire di sé al mondo non era quella della  lotta, della condanna, della controversia, ma del dialogo, della pace, della  collaborazione ecumenica e fraterna.
La minoranza progressista si propose non tanto  di mutare la dottrina della Chiesa, ma di sostituire all’immagine sacrale e  gerarchica della Chiesa quella di un’assemblea democratica, aperta alle novità,  immersa nella storia. Ciò avvenne soprattutto attraverso la Rivoluzione del  linguaggio, metodo pastorale per eccellenza. Alle professioni di fede e dei  canoni si sostituì un “genere letterario” che uno studioso del Concilio, il  padre O’Malley chiama “epidittico”. Questo modo di esprimersi, secondo lo  storico gesuita, “segnò una rottura definitiva con i Concili precedenti”. Esprimersi in termini diversi dal passato, significa accettare una  trasformazione culturale più profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del  discorso rivela infatti, prima ancora che le idee, le tendenze profonde  dell’animo di chi si esprime. “Lo stile – sottolineò O’Malley – è  l’espressione ultima del significato, è significato e non ornamento, ed è anche  lo strumento ermeneutico per eccellenza”. L’aspetto pastorale è, di norma,  accidentale e secondario rispetto a quello dottrinale, ma nel momento in cui  diviene una dimensione sostanziale e prioritaria, il modo in cui la dottrina  viene formulata si trasforma esso stesso in dottrina, più importante di quella  che, oggettivamente, viene veicolata. 
I leader del Concilio, continua O’Malley, “capivano benissimo che il Vaticano II, essendosi autoproclamato concilio  pastorale, era proprio per questo anche un Concilio docente (…). Lo stile  discorsivo del Concilio era il mezzo, ma il mezzo comunicava il messaggio”. “Questo significa che il Vaticano II, il ‘Concilio pastorale’, ha un  insegnamento, una ‘dottrina’, che in gran parte è stato difficile per noi  formulare, poiché in questo caso dottrina e spirito sono due facce della stessa  medaglia”. La scelta di uno “stile” di linguaggio con cui parlare al proprio  tempo rivela un modo di essere e di pensare e in questo senso si deve ammettere  che il genere letterario e lo stile pastorale del Vaticano II non solo esprimono  l’unità organica dell’evento, ma veicolano implicitamente una coerente  dottrina.
Sotto questo aspetto il Concilio segnò  indubbiamente un profondo cambiamento nella vita della Chiesa. I contemporanei  ne avvertirono il carattere epocale. “Si parlò – ricorda lo storico  americano Josef Komonchak – di una svolta storica; la fine della  controriforma o dell’epoca tridentina, la fine del Medioevo, la fine dell’era  costantiniana”. “Semplicemente – rileva Melissa Wilde – il  Vaticano II rappresenta l’esempio più significativo di cambiamento religioso  istituzionalizzato dal tempo della Riforma”. 
Sotto questo aspetto, non si può negarlo, il  Concilio costituì una Rivoluzione. A questo punto potrei essere accusato, come è  già avvenuto, di essere un fautore della ermeneutica della discontinuità, in  contrasto con la ermeneutica della continuità di Benedetto XVI. Queste accuse  che hanno accompagnato la pubblicazione del mio recente libro sono arrivate al  punto di cercare di mettermi contro Benedetto XVI (così Massimo Introvigne su “Avvenire”) e perfino contro Pio XII (così lo storico Alberto Melloni sul “Corriere della Sera”). Si tratta di palesi distorsioni del mio pensiero che  esigono una rettifica per il profondo amore e rispetto che provo verso Pio XII e  verso il regnante Pontefice Benedetto XVI. 
Per quanto riguarda Pio XII il discorso è molto  semplice: ho una somma venerazione verso il suo Magistero che rappresenta, come  ho scritto nel mio libro, una vera summa dottrinale, una preziosa miniera  a cui è ancora oggi utilissimo attingere. Ma Pio XII, che fu uno straordinario  diplomatico, non ebbe l’esperienza di Pastore che aveva avuto il Papa che pure  tanto amava, Pio X. E nella repressione del male che serpeggiava nella Chiesa – uso il termine serpeggiare che a Melloni non piace, perché indica bene  l’atteggiamento infido del serpe che striscia nella penombra per colpire  all’improvviso con il suo veleno – il venerabile Pio XII non fu, a mio parere,  altrettanto pronto e vigoroso di san Pio X. 
Va precisato che lo storico differisce  dall’agiografo. Chi legge l’intramontabile Storia dei Papi di Ludwig von Pastor  sa che lo storico tedesco non lesinò rispettose critiche ai numerosi pontefici  da lui presi in esame. È sul piano storico che io esprimo giudizi nei confronti  di Pio XII, Giovanni XXIII; Paolo VI, senza che ciò debba scandalizzare nessuno.  Tra questi è proprio verso Pio XII che esprimo la maggiore ammirazione. Chi  critica Pio XII non sono io, ma lo storico Alberto Melloni, che sul “Corriere  della Sera” del 9 gennaio 2005 si è pronunciato contro la sua beatificazione  definendolo “un Papa solitario e calcolatore, nella cui figura gli elementi  politici dominano per logica interna”.
Ma l’accusa di fondo che è stata rivolta al mio  testo è un’altra: nel mio libro non distinguerei i testi del Concilio dal suo  contesto storico, fondendo e unificando testi e contesto in unico evento. Con  ciò assorbirei e fagociterei il testo nel contesto cadendo in una sorta di  strutturalismo come, in ultima analisi, fa la scuola di Bologna. 
Chi lancia questa accusa è però un lettore  frettoloso o tendenzioso. Infatti io affermo esattamente il contrario di quanto  mi si attribuisce. Non ho mai negato la distinzione logica tra testo e contesto.  L’impossibilità di separarli non significa impossibilità di distinguerli. Nego  la tesi della scuola di Bologna, secondo cui i testi vadano assorbiti nel  contesto, ovvero nell’evento e spirito del Concilio. Sostengo invece che vanno  ben distinti i testi dottrinali dal contesto storico del Concilio. I testi hanno  una loro autonomia, una loro importanza, una loro dignità, ma vanno esaminati in  quanto testi sul piano teologico. Non ho l’autorità né la competenza teologica  per formulare questa valutazione teologica e mi rimetto al giudizio di un  eminente ecclesiologo come mons. Brunero Gherardini, che fin dagli anni  Settanta, il mio maestro universitario Augusto Del Noce ricordo definiva il  migliore teologo romano.
Dove rivendico competenza è sul piano storico  ed è sotto questo aspetto che studio un contesto comprensivo anche,  necessariamente, dell’elaborazione dei testi. È sul piano storico, non sul piano  teologico, che giudico il Concilio una Rivoluzione nella Chiesa e, per molti  aspetti, un evento disastroso. Ed è invece sul piano teologico, e non su quello  storico, che Benedetto XVI ci invita a seguire, in modo però non conclusivo né  definitorio, l’ermeneutica della continuità.
Ermeneutica della continuità che, d’altra  parte, può essere intesa in un solo modo: quello di leggere i documenti del  Concilio alla luce del precedente Magistero della Chiesa, attraverso un metodo  preciso: laddove si ravvisano ambiguità, incertezze, appunti di contraddizione,  assumere come punto di riferimento la Tradizione. 
I documenti promulgati dalle supreme autorità  ecclesiastiche non hanno infatti, dal punto di vista teologico, il medesimo  valore. Se Benedetto XVI esprime alcune opinioni in un’intervista, come è  accaduto nel suo ultimo libro Luce del mondo, è evidente che esse vadano  accolte con il massimo rispetto, perché chi parla è, comunque, il Vicario di  Cristo. Ma è altrettanto evidente che tra un’intervista e la definizione di un  dogma c’è una gradazione di autorità che non impegna, al medesimo livello,  l’ossequio dei fedeli. Lo stesso può dirsi di un Concilio come il Vaticano II,  che in quanto riunione solenne dei vescovi uniti al Papa, ha proposto  insegnamenti autentici non certo privi di autorità. Il suo Magistero – come ha  ben spiegato mons. Gherardini – è certamente solenne e supremo. Ma solo chi  ignora la teologia potrebbe attribuire un grado di “infallibilità” a tutti i  suoi insegnamenti.
Perché, se si volesse intendere capovolgere il  metodo ed affermare che la continuità va letta assumendo come punto di  riferimento non la Tradizione, ma il Concilio: se si volesse cioè leggere la  Tradizione alla luce del Concilio e non viceversa, bisognerebbe attribuire al  Concilio quel valore di infallibilità, che mai nessun testo del Concilio ha in  sé, e allora bisognerebbe cercare l’infallibilità del Concilio nell’evento  stesso, nel suo spirito, nell’impalpabile carisma che anima i testi senza  tradursi in formule definitorie. Ma questa è esattamente la posizione della  scuola di Bologna, non è certo quella di Benedetto XVI.
L’affermazione secondo cui il Concilio II va  inteso in continuità con il Magistero della Chiesa presuppone infatti  l’esistenza nei documenti conciliari di passaggi dubbi o ambigui, che  necessitano una interpretazione. Per Benedetto XVI il criterio di  interpretazione del passaggio dubbio non può che essere la Tradizione della  Chiesa, come egli stesso ha più volte ribadito. Se si ammettesse invece che il  Vaticano II fosse il criterio ermeneutico per rileggere la Tradizione,  bisognerebbe attribuire, paradossalmente, forza interpretativa a ciò che ha  bisogno di essere interpretato. Interpretare la Tradizione alla luce del  Vaticano II, e non il contrario, sarebbe possibile solo se si accettasse la  posizione di Alberigo, che attribuisce valore interpretativo non ai testi, ma  allo “spirito” del Concilio. Tale non è però la posizione di Benedetto XVI, che  critica l’ermeneutica della discontinuità, proprio per il primato che essa  attribuisce allo spirito sui testi. O si ritiene, come mons. Gherardini, che le  dottrine del Concilio non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né  infallibili né irreformabili e dunque nemmeno vincolanti, oppure si assegna al  Concilio un’autorità tale da oscurare le altre venti precedenti assisi della  Chiesa, abrogandole o sostituendole tutte. Su quest’ultimo punto sembra non  esserci differenza tra gli storici della scuola di Bologna e sociologi come  Massimo Introvigne che sembrano attribuire valore di infallibilità al Vaticano  II.
D’altra parte, il lavoro storico è  complementare a quello teologico e non dovrebbe preoccupare nessuno.  Bisognerebbe rinunziare a scrivere la storia del Concilio Vaticano II in nome  della “ermeneutica della continuità”? O lasciare che a scriverla sia solo la  scuola di Bologna, che ha offerto contributi scientificamente pregevoli, ma  ideologicamente tendenziosi? E se elementi di discontinuità dovessero emergere,  sul piano storico, perché temere di portarli alla luce? Come negare una  discontinuità, se non nei contenuti, nel nuovo linguaggio del Concilio Vaticano  II? Un linguaggio fatto non solo di parole, ma anche di silenzi, di gesti e di  omissioni, che possono rivelare le tendenze profonde di un evento più ancora del  contenuto di un discorso. La storia dell’inspiegabile silenzio sul comunismo da  parte di un Concilio che avrebbe dovuto occuparsi delle principali questioni del  mondo è ad esempio un fatto clamoroso e catastrofico che allo storico non è  lecito ignorare.
Sono anche stato criticato per aver stabilito  una continuità tra Concilio e post-Concilio. Ma il Concilio Vaticano II non può  essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni  senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che  esso ebbe nella Chiesa e nella società.
Già all’indomani del Concilio l’orizzonte della  Chiesa vedeva il crollo delle certezze dogmatiche; il relativismo della nuova  morale permissiva; l’anarchia in campo disciplinare; le defezioni dal sacerdozio  e l’allontanamento dalla pratica religiosa di milioni di fedeli; l’espulsione  dalle chiese di altari, balaustre, crocifissi, statue di santi, arredi sacri, ma  soprattutto il crollo delle vocazioni e l’abbandono della vita religiosa. È lo  storico gesuita Giacomo Martina a scriverlo, nel 1977. “Per la prima volta  nella storia – scriveva – si è assistito all’abbandono del sacerdozio, pur con  tutte le dispense necessarie, da parte di migliaia di preti, nel giro di pochi  anni”.
Il bilancio complessivo del quarantennio  postconciliare 1965-2005, riguardo alle perdite totali e percentuali dei  principali istituti religiosi, sarà ancora più drammatico. Se i religiosi dei  principali istituti maschili erano 329.799 nel 1965, nel 2005 ne restavano  214.913, circa un terzo erano venuti meno nei 40 anni di post-concilio.
Come negare l’esistenza di una profonda crisi  della Chiesa post-conciliare più volte ammessa dallo stesso Paolo VI, da  Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI? Ogni evento però ha una causa  proporzionata. Possibile che il Concilio Vaticano II fosse estraneo alla crisi  del post-Concilio e che la cattiva interpretazione dei testi possa essere  considerata una causa proporzionata per spiegare ciò che seguì? Si può davvero  separare la Rivoluzione postconciliare dal Concilio? 
Voglio ricordare solo un episodio, quando nel  1968 Paolo VI fu apertamente contestato dal cardinale Suenens per la  promulgazione della enciclica Humanae Vitae. Ma chi era il cardinale  Suenens?
Era il prelato a cui Paolo VI aveva concesso un  privilegio senza precedenti, quando il 23 giugno 1963, pochi giorni dopo la sua  elezione, lo aveva voluto accanto a sé, alla finestra del Palazzo apostolico,  presentandolo alla folla riunita in San Pietro per l’Angelus. Era il  giovane cardinale di Bruxelles che all’indomani della sua elevazione alla  porpora era accorso a Roma per suggerire a Giovanni XXIII di dare un’impronta  pastorale al Concilio. Era l’uomo che fin dall’inizio aveva stabilito un patto  di ferro con mons. Helder Câmara, vescovo ausiliario di Rio, poi vescovo rosso  di Recife, che si rivolgeva a lui, con un codice cifrato, chiamandolo “padre  Miguel”. Era l’uomo prescelto per guidare i quattro “moderatori” del Concilio:  una posizione chiave che avrebbe assunto per tre anni. Era l’uomo che già in  Concilio, il 19 ottobre 1964, aveva sollevato il problema del controllo delle  nascite, pronunciando in piena basilica di San Pietro, con tono veemente, le  parole: “Non ripetiamo il processo di Galileo!”. Nessuno più di lui aveva  vissuto il Concilio da protagonista. Il cardinale Suenens, ribelle a Paolo VI e  alla Chiesa nel 1968, era un uomo diverso da quello che tre anni prima, aveva  intonato il canto della vittoria alla chiusura del Concilio? Aveva cambiato la  sua mentalità, aveva distorto i documenti del Concilio, ne aveva male  interpretato lo spirito? Suenens non aveva bisogno di forzare o distorcere i  documenti del Concilio perché Suenens, come Frings, Alfrink, Bea e tanti altri,  era il Concilio.
Il nesso tra Concilio e post-Concilio non è il  nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del  post-Concilio. È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio,  in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965 e il post-Concilio, in  quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978, e si protrae fino ai nostri  giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della  morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come  l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796,  e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese.
La pretesa di separare il Concilio dal  post-Concilio è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi  conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio,  ma neanche nessuna persona di buon senso potrebbe accettare questa artificiale  separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva  valutazione dei fatti. Ancora oggi viviamo le conseguenze della “Rivoluzione  conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché  nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi  l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”.
La sua missione, come affermava Pio XII, non  può svolgersi ed adempiersi con la benedizione del cielo se non sotto la divisa terrena non metuit! È sotto questa divisa che, seguendo le indicazioni  del Santo Padre Benedetto XVI, tutti noi, sacerdoti e laici, dobbiamo assumerci  l’impegno, di aprire coraggiosamente nuove strade, di tornare ad essere il sale  del mondo. 
Io credo che uno dei primi nostri compiti sia  oggi quello di rinnovare l’immagine della Chiesa, abbandonando ogni forma di  cattiva pastorale. Se infatti una dottrina ha il suo criterio di giudizio ultimo  nella verità che essa esprime – una dottrina è buona e giusta se è vera – il  metodo pastorale ha il suo criterio di verifica nei risultati che raggiunge: un  metodo pastorale è buono e giusto se funziona, se ottiene i risultati previsti.  Ciò non fu il caso del Concilio Vaticano II, che si auto qualificò pastorale, ma  proprio sul piano pastorale fu contraddetto dai fatti. Molti teologi vollero  trasporre il primato marxista della prassi nel primato religioso del pastorale  sul dottrinale, ma entrambi i metodi furono condannati dal tribunale  immanentistico a cui si appellavano: quello della storia.
Rinnovare la pastorale significa abbandonare il  linguaggio sociologico, piegato alle esigenze del mondo e ritrovare il  linguaggio perenne e universale della Chiesa, quello che parla alla mente e al  cuore degli uomini attraverso la chiarezza della dottrina e la bellezza della  verità; significa ritrovare il senso di una Chiesa militante, di una Chiesa che  combatte perché vive nella storia, vive nella storia perché è un Corpo  gerarchico e visibile, ma nella storia combatte per un fine che è soprannaturale  e non terreno, perché il suo Corpo è Mistico, e ha in Gesù Cristo, unica via,  verità e vita, il suo Capo e fondatore.
Nel 1953 Papa Pacelli invitava i giovani di  Azione Cattolica a combattere contro i nemici della Chiesa, che muovono ad essa “una guerra terribile, con perfida strategia e subdola tattica”. “Muoiono gli uomini, anche quelli che sembrano immortali; crollano le umane  istituzioni; si succedono gli uni agli altri, i più impensati tramonti. E a ogni  alba nuova la Chiesa assiste serena ed è baciata dal sorgere di ogni nuovo  sole”.
---------------
Dove va la Chiesa?
In queste ore drammatiche ci chiediamo: dove va  la Chiesa e, ancora più profondamente, dove è la Chiesa? Non la Chiesa  invisibile dei docetisti, degli hussiti, o dei modernisti, ma il Corpo Mistico  di Cristo, la Chiesa cattolica, apostolica, romana, riconoscibile dalle sue note  visibili.
Ebbene mai come oggi è attuale la  intramontabile definizione di san Roberto Bellarmino, che dice: la Chiesa è la  comunità dei fedeli uniti dagli stessi sacramenti e dalla stessa fede, sotto la  guida degli stessi pastori.
Questa e non altra è Chiesa e questa stessa  definizione la ritroviamo nelle parole che il Divino Fondatore della Chiesa,  Nostro Signore Gesù Cristo, rivolge ai nostri cuori, invitandoci a  seguirlo.
“Io – ci dice il Signore con parole  forti, dolci, esclusive – sono la via, la verità, la vita”. Potrebbe  apparire che di questi attributi il più importante sia la verità: Ego sum  veritas. La Chiesa, certo è dove è la verità, secondo la formula di san  Vincenzo di Lerins, quella di cui non si può cedere neppure uno iota, quella che  è racchiusa nella Tradizione Cristo è verità. Ma questa verità non è astratta  come il logos greco, è vivificata dalla Grazia, e la fonte di ogni Grazia che  fluisce attraverso i sacramenti è Cristo stesso. La Chiesa è dove sono i suoi  sacramenti.
I sacramenti della Chiesa sono la fonte della  nostra vita spirituale e questa vita spirituale ha la sua fonte in Cristo  stesso. Ma la dottrina e la vita, la fede e i sacramenti non bastano, se non c’è  una via da seguire. E nella Chiesa questa via la tracciano i legittimi pastori,  che seguono a loro volta il Papa, successore di Pietro, Vicario di Cristo in  terra.
La nota della apostolicità ci garantisce questa  legittimità dei pastori, che ha la sua fonte ultima nel Buon Pastore per  eccellenza, unica via.
Dove è la legittima gerarchia, dove è la vera  fede, dove è la santità dei sacramenti, lì è la Chiesa. Cercando questi punti di  riferimento, nulla abbiamo da temere perché dove troviamo la Chiesa una nella  fede, santa nelle sue opere, e apostolica nella sua gerarchia lì troviamo Gesù  stesso, via, verità e vita.

 




