Il  Concilio Vaticano II è oggetto di numerosi studi o ermeneutiche spesso  contrastanti e di segno opposto. Questo è un aspetto nuovo nella storia della  ricezione conciliare e segno dei tempi in cui il Concilio volle calarsi con  notevole “libertà”. 
Il  Vaticano II volle essere un concilio pastorale, premurandosi allo stesso tempo  di apportare numerosi miglioramenti e innovazioni alla dottrina cattolica, già  definita in concili precedenti o solo reiterata dalla Tradizione della  Chiesa. 
Una delle  difficoltà ermeneutiche maggiori che gli studiosi affrontano e che spesso li  divide è questa: come capire le novità del Concilio e delle sue dottrine  peculiari alla luce della dottrina definitiva della Chiesa? Cosa significa che  il Vaticano II, come concilio, si colloca su un piano pastorale e non  dogmatico-definitorio? Tutto il nuovo è per sé vincolante per la fede? È un  tutto dottrinale o solo un’esortazione pastorale? I due livelli si intersecano e  talvolta si confondono? Domande che crescono nella misura in cui si entra più in  profondità nel Concilio.
Nel  discorso di apertura del Concilio, Gaudet mater ecclesia, Giovanni XXIII  chiarì la volontà programmatica dell’incipiente assise: non definire nuovi dogmi  o condannare gli errori – sembrava al Papa che la coscienza moderna stesse  provvedendo da sola a emendarsi da scelte sbagliate; probabilmente qui aveva in  mente l’entusiasmo per una ripresa post-bellica – ma dire la dottrina della fede  che non cambia, né lo potrebbe, al mondo moderno. Si trattava di trovare una  metodologia nuova, pastorale, perché la fede e i suoi dogmi venissero spiegati  con un linguaggio accessibile al mondo ormai mutato.
Dire la  fede in modo nuovo fu però letto già in Concilio in modo diverso: si doveva  cambiare solo il modo di dirla o trovare anche le espressioni più adeguate nella  sua esposizione? L’espressione verbale della fede, infatti, afferisce  immediatamente i suoi contenuti. Non ogni linguaggio o metodo era perciò adatto,  ma solo quello che presentava la fede lasciandone intatto il contenuto e il suo  significato, «eodem sensu eademque sententia». Non fu molto chiaro in che  modo si dovesse procedere a ciò che da molti interpreti fu definito “aggiornamento” conciliare. Non si dimentichi che Giovanni XXIII parlava di  aggiornamento per il Codice di Diritto Canonico e non per l’imminente Assise.  Tuttavia codesta parola fu programmatica.
Pastorale  voleva dire aggiornamento? E se sì aggiornamento della dottrina senza troppe  preoccupazioni per il metodo dogmatico piuttosto intransigente o, ancora una  volta, solo della metodologia? 
Il  Concilio comunque perseguì la strada pastorale dell’esposizione non definitoria  della fede (non furono definiti nuovi dogmi) e utilizzò anche un linguaggio più  descrittivo o narrativo, non sempre però sufficientemente chiaro da dirimere sul  nascere eventuali controversie o spiegazioni arbitrarie, come invece lo era per  i canoni che accompagnavano un insegnamento dottrinale nei concili precedenti.  Il post-concilio ha conosciuto poi numerose dispute su come interpretare una  determinata dottrina o su quale fosse la vera lettura di un determinato testo. 
Nel  famoso discorso alla Curia del dicembre 2005 il S. Padre Benedetto XVI parlò di  due ermeneutiche che si erano confrontate e anche scontrate nella stagione  post-conciliare: quella giusta della riforma nella continuità della Chiesa e  della sua Tradizione e quella scorretta della discontinuità e della rottura, che  finisce col provocare una frattura tra la Chiesa precedente al 1962 e quella che  poi ne sarebbe seguita. La Chiesa, invece, è sempre una e ininterrotta. 
Nel mio  lavoro sul Concilio Vaticano II (Iuxta modum, Cantagalli 2012 e un altro  in preparazione sull’ermeneutica di alcune dottrine conciliari chiave),  collocandomi nella scia dell’invito del Pontefice, cerco di offrire un principio  ermeneutico che sia il più rispondente al Concilio come “nuova forma” magisteriale e alle sue dottrine tipiche. Auspico che si veda il Concilio nella Chiesa e subordinatamente a Essa, tenendo conto di un dato  importante: la nuova pastoralità del Vaticano II, che detta in qualche modo la  stessa agenda del Concilio, è un Leitmotiv e al contempo un limite. Ci  aiuta a capire la mens dei Padri conciliari e a misurare con giusto e  oggettivo criterio le dottrine peculiari del Concilio Vaticano II. Questo per il  bene e l’unità della Chiesa, senza fare del Vaticano II un “superdogma” e  neppure un pericolo per la fede. Bisogna rimettere il Concilio al posto  suo.
Con  lungimiranza, ancora Benedetto XVI, nell’aprire l’Anno della Fede a  cinquant’anni dall’inizio del Concilio, ha puntualizzato che non si tratta tanto  di commemorare un evento quanto di riappropriarsi del vero spirito di riforma  del Vaticano II, diluito spesso in un’euforia piuttosto sbarazzina. Aggiungerei:  non si tratta di fare una commemorazione auto-celebrativa ma capire perché la  fede è in crisi. 
Non è un  tornare indietro, per rispondere a un ritornello che si sente spesso. Il vero  problema è che non siamo andati veramente avanti. Ho letto proprio in questi  giorni, nel clima delle primarie del PD, una frase che avevo sentito a più  riprese applicata all’evento conciliare: «Nulla sarà come prima». Ci si riferiva  all’“evento Renzi”, con il quale il suo partito cambiava registro o credeva di  cambiare. E pensavo: «Le due dimensioni, quella politica e quella teologica,  potevano incontrarsi ma così anche segnare un limitarsi reciproco». Anche questo  è da mettere in conto.
P.   Serafino M. Lanzetta, FI